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Cecco Angiolieri: S'i' fosse fuoco Analisi del testo e comparazione con la versione De André - Martina Ombrello III F 2017-2018 L.S. L. Siciliani

Si tratta di uno dei lavori svolti dall'allieva Martina Umbrello per l'Open Day 2018 del Liceo Scientifico L. Siciliani di Catanzaro

 

S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo; 
s’i’ fosse vento, lo tempesterei; 
s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei; 
s’i’ fosse Dio, mandereil’en profondo; 

s’i’ fosse papa, sare’ allor giocondo, 
ché tutti cristïani imbrigherei; 
s’i’ fosse ’mperator, sa’ che farei? 
A tutti mozzarei lo capo a tondo. 

S’i’ fosse morte, andarei da mio padre; 
s’i’ fosse vita, fuggirei da lui: 
similemente farìa da mi’ madre. 

S’i’ fosse Cecco, com’i’ sono e fui, 
torrei le donne giovani e leggiadre: 
e vecchie e laide lasserei altrui. 

 

Cecco Angiolieri, autore senese vissuto nel XIII secolo, fu uno dei maggiori esponenti della poesia comico-parodica, finalizzata a contraddire e ribaltare i canoni della cultura dominante, caratterizzata, in questo caso, dallo stile rarefatto, dagli ideali sublimi  del “dolce stil novo”. La lirica dell’Angiolieri “S’i fosse foco” è un sonetto, formato da due quartine e due terzine, aventi schema rimico ABBA CDC DCD. La tematica principale della poesia è, appunto, la negazione degli equilibri, delle figure inconfutabili di riferimento morale e sociale dell’epoca: la Divinità, il papato, l’impero, la famiglia. L’autore rappresenta le aspirazioni, perennemente inappagate, della classe più umile e trascrive tale desiderio di riscatto e cambiamento, provando ad immaginare quali sarebbero i suoi comportamenti se si trovasse in una posizione di potere e autorevolezza. I modi verbali utilizzati sono in prevalenza il condizionale e il congiuntivo, che esprimono  possibilità, incertezza; se a ciò si aggiunge la decisa ironia della terzina finale ,si capirà che le minacce terribili di cui il poeta ha cosparso il suo componimento non esprimono una reale tendenza alla sovversione dell’ordine sociale ma, piuttosto, un semplice gioco letterario, che si rifà alla poesia goliardica latina.

Secondo il critico letterario Bachtin, l’esistenza di un filone culturale sommerso e parallelo rispetto alla corrente culturale principale non è una peculiarità del Basso Medioevo ma, piuttosto, una tendenza che da sempre caratterizza ogni epoca storica, interessando ogni espressione creativa e artistica. La predisposizione della classe popolare alla materialità, alla trattazione di tematiche che nulla hanno di spiritualizzato svolge una funzione di valvola di sfogo sociale, consistente nella negazione temporanea dello status quo, per poi tornare all’ equilibrio iniziale. Il “riso carnevalesco” è, dunque, un riso ironico, quasi di autoinganno, non allegro, disinvolto o spensierato, ma consapevole della propria limitatezza temporale, conscio del proprio utopismo. E De Andrè riesce alla perfezione a interpretare con la musica l’intento e la predisposizione del poeta ma anche di un’intera classe sociale,  attribuendo al sonetto in questione non rabbia distruttiva, bensì un senso di inquietudine, insoddisfazione e malinconia.

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